Quante volte ci è capitato di essere a cena fuori con degli amici o con la nostra famiglia e dare un occhio allo smartphone? Guardare gli ultimi post pubblicati dai nostri contatti su Facebook o Instagram, rispondere alle chat di Whatsapp, controllare la mail. E quante volte ci siamo accorti che facendolo inconsciamente ci estraniamo dal contesto o dalla conversazione ignorando i nostri interlocutori? Questo comportamento è definito phubbing.


Da dove deriva il termine phubbing?

E’ un termine recente nato dalla fusione delle parole “phone” (telefono cellulare) e “snubbing” (snobbare), e si riferisce appunto all’atto di ignorare o trascurare il proprio interlocutore in un contesto sociale concentrandosi sul proprio smart­phone. In poche parole phubbing è la dipendenza da smartphone. Il phubbing è quindi un comportamento che consideriamo ormai comune e abituale.

Questo comportamento viene oggi percepito come normativo e non dannoso. Può capitare che gli individui sovrastimino la diffusione di idee o comportamenti percependo quindi un consenso molto più ampio del reale, a questo si aggiunge che chi subisce il phubbing a sua volta lo attua passando spesso e fluidamente dall’essere protagonista all’essere destinatario di questo comportamento in un circuito che si autoalimenta: il phubber diventa phubbee e viceversa, incrementando la frequenza e la reciprocità del comportamento e ampliando l’effetto del falso consenso, in un circolo vizioso.

Che sia normativo o no, l’esperienza di sentirsi invisibili ed esclusi dall’interazione sociale porta a vissuti di depressione, ansia, rabbia, solitudine determinando di fatto esclusione e impoverimento delle risorse dell’individuo.

Il phubbing è una nuova modalità di isolamento sociale e come tale non ne vanno trascurate le possibili conseguenze negative.